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Caporalato, Minervini: “La questione è drammatica e complessa”

Nota del capogruppo di “Noi a Sinistra per la Puglia”, Guglielmo Minervini sul caporalato.
Per piacere, ‘non faccimmo ammoina’.
C’è voluta un’estate torrida e una sequenza crudele di morti per sollevare il problema, per farci accorgere che il caporalato esiste e sta assumendo un volto ancora più feroce.
Per una volta facciamo le persone serie.
La questione è terribilmente drammatica e complessa per pensare di liquidarla con tavoli, task force e norme.
Perché il caporalato non è più solo una roba che schiavizza braccianti stranieri ma anche nostri concittadini che ritornano alla terra per difendersi dalla crisi del lavoro. Il caporalato quest’anno non si presenta più solo col volto del Ghetto di Rignano ma anche con quello delle campagne di Andria: non colpisce solo senegalesi ma anche le donne di un vasto territorio ionico.
Oggi, proprio come dicevamo un anno fa, quando la nostra iniziativa rimase senza il dovuto ascolto e il necessario sostegno, serve la politica. O meglio: servono politiche pubbliche. Intelligenti e incisive.
1) Le colture più esposte al caporalato sono quelle senza una logica di filiera. Il pomodoro innanzitutto, l’uva da tavola. Grande frazionamento dei produttori che finiscono nel gioco della grande distribuzione e delle industrie di conservazione. Loro fanno il bello e il cattivo tempo. La catena dello sfruttamento comincia di lì. Quest’anno il prezzo del pomodoro è lo stesso di trent’anni fa, mentre il distretto del pomodoro arranca e rischia il fallimento. Quando le 24mila aziende che producono pomodoro nella Capitanata si muoveranno sul mercato come un unico forte soggetto economico, esattamente come avviene nel Trentino per la mela? Tutte le risorse, specie quelle comunitarie, vanno destinate alla costruzione di filiere che consentano di passare dalla competizione sul costo a quella sulla qualità del prodotto. Altrimenti la partita è persa.
2.) Il Ministero da che parte sta? Vuole svolgere il suo ruolo di garante nel negoziato tra le parti (produttori, industrie e catene commerciali) per verificare che non si scenda al di sotto di un certo livello di prezzo che significa sfruttamento?
3) Poi ci sono gli organismi di controllo. Troppa indulgenza, troppa tolleranza. In fondo è solo un po’ di evasione. No. È schiavitù ed è anche una voce consistente dell’economia criminale.
4) Ai doveri vanno richiamate anche le associazioni datoriali, troppo intolleranti al cambiamento. Sono anni che impediscono il varo degli indici di congruità, un primo fondamentale strumento per cominciare a snidare le imprese vistosamente irregolari.
5) E poi ci siamo noi, soprattutto noi: i consumatori. Quando compriamo un barattolo di pelati a 49 centesimi chiediamoci quale lavoro c’è dietro. L’anno scorso abbiamo lanciato EquaPuglia, un bollino che deve servire a qualificare le aziende che producono con lavoro pulito, legale, equo. Ora sta partendo ‘Prodotti di Puglia’, un marchio per raccogliere il paniere di prodotti regionale di eccellenza. Bene. Che funzioni rapidamente. Il resto spetta a noi, la catena della schiavitù comincia dall’attenzione che poniamo nell’acquisto dei nostri alimenti, dal nostro consumo consapevole. Mettere in discussione la reputazione sociale dei grandi marchi delle scatole e del commercio è una leva potente per impegnarli a un gioco meno spregiudicato.
L’anno scorso col piano ‘Capo free-Ghetto off’ abbiamo tracciato questa strada.
Ancora oggi resta l’unica possibile.
Ma serve un lavoro in cui ciascuno faccia la parte.
Non sarà facile e non è breve, ma è la sola strada possibile”. /comunicato

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