CENTENARIO E DINTORNI, PARLIAMONE!

di FRANCESCO GIANNUBILO
Condizione essenziale perché le commemorazioni di eventi possano servire a qualcosa – il che non è nemmeno certo – è che esse si propongano come occasioni di serie riflessioni storico-critiche, e non retoriche o apologetiche, circa gli eventi di cui ricorre l’anniversario. Ma così non è stato, e così non è! Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia è stata occasione o di sfogo, da parte di studiosi e pseudo-studiosi, di sentimenti dissacratori, chiaramente antirisorgimentali, ovvero di celebrazioni “di regime”, trionfalistiche ed infinitamente retoriche, senza che, salvo poche eccezioni, si sia tentato di pervenire a più serie prospettazioni reinterpretative, che, senza nulla togliere al valore ed alla grandiosità del conseguimento dell’indipendenza come il più grande evento rivoluzionario del XIX secolo, potessero gettare nuova luce su suoi limiti e difetti , sul continuum Risorgimento/post-Risorgimento/guerre mondiali e sul perché tante promesse implicite in quel risultato non siano state poi in realtà mantenute. E non c’è mai fine al peggio! Anche gli eventi celebrativi, oramai al termine, del centenario dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, sono stati per lo più retorici a dismisura e a volte anche grotteschi. Non s’intende qui minimamente dissacrare un avvenimento – la “madre di tutte le guerre” come è stata definita – che, per la sua dirompenza, pur tra profonde divisioni, alimentò tante speranze, ed anche speranze perché l’Italia diventasse una nazione come comunità di cittadini, attuando in tal modo la maggiore delle promesse dell’Unità. Ma la conditio sine qua non è che si abbandoni la conformistica, untuosa e distorta equazione dell’entrata in guerra dell’Italia soltanto per aneliti irredentistici, cioè di ricomposizione del territorio nazionale, a completamento del processo unitario, con la liberazione delle terre soggette ancora al dominio straniero – il Trentino, Trieste e l’Istria -, rapportandosi così il tutto ad un esile movente irredentistico, nato dal senso di amarezza per come si era concluso il corso risorgimentale, che, in realtà, era stato accantonato sin dal 1882 a causa dell’adesione dell’Italia alla Triplice Alleanza. Ma si trattava solo di “un cadavere” improvvisamente risorto proprio in prossimità dello scoppio della guerra, o c’era dell’altro? E sì che c’era altro! Se fino al 1882 l’irredentismo si caratterizza in senso risorgimentale, democratico, e si ricollega all’Austria delenda est di MAZZINI, dopo quella data trasmuta nel colonialismo e via via, specialmente alla vigilia della guerra, nell’imperialismo e nel nazionalismo; insomma, un crescente anelito all’innalzamento del Paese ad un ruolo di grande potenza. Tutto questo nonostante le fragilità che caratterizzavano il nuovo Stato unitario, sulla base di un tacito accordo della nuova borghesia, che faceva capo alla sinistra, con la Corona. Infatti, di lì a poco, nel 1885, sarebbe incominciata la nostra avventura coloniale in Africa per la conquista dell’Eritrea, proseguita nel 1895-96, e per la conquista della Libia nel 1911-12. Prendeva così corpo la “nazione di Mazzini”, diversa da quella di CAVOUR, il cui terreno di misura era la politica estera, una politica di potenza sfociata proprio nell’entrata in guerra dell’Italia, a cui, con la firma dell’accordo del 26 aprile del 1915 si concedeva il Trentino, Trieste, l’Istria, una parte della Dalmazia, Valona e il Dodecanneso oltre ad acquisizioni territoriali in Africa e in Asia Minore. Insomma, un mix rivendicativo tutt’assieme irredentistico-colonialistico-imperialistico-nazionalistico, non dissimile, per il profilo qualitativo, da quello altrettanto imponente che MUSSOLINI, venticinque anni dopo, avrebbe posto a base dell’ingresso in guerra a fianco di HITLER. Sì, dunque, “Quarta Guerra d’Indipendenza”, ma a patto di dare al concetto di indipendenza un significato estensivo e di ricompattare nel suo mix rivendicativo aneliti ben al di là di quelli irredentistici. Di certo, tutto questo non è affatto biasimevole in quel contesto internazionale di potenza né si pone come intento di desacralizzare un fondamentale evento identitario della comunità nazionale, e v’è pure che una guerra di così vaste proporzioni non può sublimarsi in una esperienza vissuta solo nell’immediato, ma va a collocarsi nel processo di edificazione di coscienze, di miti collettivi. A patto, però, che tanta Cultura – compresa quella che fino a poco tempo addietro ha ritenuto che la “luminosa” storia d’Italia sia iniziata solo dal 1945 (ora “più realista del re”!) – ancora elitistica, provinciale, arrogante e spesso anche cinica, smetta di procedere per idilliache, edulcorate, ipocrite semplificazioni storiche, un sorta di nostrano “buonismo d’accatto”, sacrificando così, per un ambiguo imperativo celebrativo, una doverosa, deideologizzata ricerca storica in nome della creazione di un surrettizio piedistallo emotivo di massa e di una inesistente articolata mitologia di una nazione ancora largamente incompiuta.
