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Il “Carnevale Sanseverese”. Le tradizioni della nostra città che non devono scomparire

Le allegre comitive, quasi in pellegrinaggio di casa in casa…

Il 17 gennaio, giorno di S. Antonio Abate, come da tradizione, inizia il Carnevale, parola di derivazione latina “Carnem levare” ossia “togliere la carne”; in questo giorno nelle case si consuma un pasto tipico composto da orecchiette al sugo e salsicce di maiale. Nel pomeriggio, si svolge il gioco della “cuccagna”, consistente nello scalare un palo di legno alto oltre dieci metri, insaponato e ingrassato, sul quale era stato issato un asse trasversale da cui pendevano salumi, formaggi. L’assalto al palo è compiuto da gruppi di giovanotti, intenti ad una sana competizione. I vani tentativi per raggiungere la cima del palo erano accompagnati da risate, applausi. In questa stessa occasione, un tempo, veniva allestito un grosso palco in legno, su cui si svolgeva una curiosa gara riservata alla più famose “forchette” o ai più mattacchioni, ben noti in loco. La gara consisteva nella capacità di mangiare il maggior numero di piatti pieni di sugo; al vincitore veniva offerta una “provvista” di generi alimentari. Davanti alla chiesa di Sant’Antonio Abate aveva luogo la benedizione degli animali, impartita dal sacerdote che, nel ricevere un obolo da ciascun proprietario presente nella piazzetta, distribuiva loro un’immaginetta del Santo; essa veniva abitualmente affissa nella stalla o dietro l’uscio di casa a scopo protettivo. Durante tutto il periodo di Carnevale in molte case si organizzavano balli e cenette e tutti cercavano di dare libero sfogo alla propria istintività con allegre mascherate. Giovani e ragazzi si vestivano di stracci, di abiti vecchi e rattoppati, se mai indossati al rovescio, con cappellacci, mantelle e mantelline, sciarpe e scarponi, lunghe gonne pieghettate, grembiuli colorati, gambali da pastore, bastoni e ombrelli vecchi. Erano oggetti di poco conto, recuperati in casa, senza spendere denaro per capi che a quel tempo erano impensabili e neppure in vendita, nel clima di miseria che regnava un po’ dovunque. Quasi tutti usavano dipingersi il viso in nero col carbone o in bianco con la farina, e grosse chiazze rosse, ottenute con carta velina bagnata e strofinata, abbellivano le guance. Molti si trasformavano addirittura nella figura, fingendosi zoppi e appoggiandosi ad un bastone, o fingendosi gobbi e nascondendo un cuscino dietro la schiena. Brevi cortei, così miseramente mascherati, animavano le strade cittadine, spesso al suono-rumore di forchette e cucchiai, di mestoli d’alluminio vigorosamente battuti su pentole e coperchi oppure di campanacci sottratti alle pecore e alle mucche oppure di «zighede-bughede» un curioso strumento di origine sicuramente napoletana (“a caccavella”), il cui termine non trova riscontro nel vocabolario dialettale locale, essendo stato esso importato come tanti altri elementi presenti nella cultura della comunità sanseverese; era costituito da un barattolo di latta la cui apertura superiore era coperta da un panno; in un foro qui praticato veniva inserita una mazza che, azionata a mo’ di stantuffo, produceva un curioso suono-rumore alquanto cupo e stridente. Le allegre comitive, quasi in pellegrinaggio di casa in casa, chiedevano a parenti e amici cibo e vino con allegre stornellate, esibendosi in vere e proprie sceneggiate. L’offerta di doni era naturalmente finalizzata ad arricchire il convivio finale, così come avveniva nella notte dell’Epifania. Nell’ultimo giorno di Carnevale i festeggiamenti si concludevano con una tipica quanto macabra sfilata: un grosso pupazzo di paglia che indossava vecchi abiti, un cappello in testa ed una pipa in bocca, veniva issato e trasportato su di un carro lungo le strade principali. Rappresentava il funerale di Carnevale ed era seguito da maschere che improvvisavano pianti e lamenti funebri, tra le risate di due ali di folla.

Da Silvana Del Carretto “San Severo. Usanze – tradizioni – impronte del tempo passato” – Ed. Incontro alla Luce – Foggia – 1996 (adattamenti).

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