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“La mafia innominabile”, il libro del procuratore Domenica Seccia, torna profeticamente d’attualità.

A volte, ci sono libri che dopo essere stati letti sembrano dimenticati negli scaffali delle librerie e in quelli della memoria. Sembrano. Perché poi è il lettore a chiedere (e chiedersi) come mai, “quel” libro sia stato riposto velocemente tra gli scaffali della libreria in legno e in quella della “materia grigia”. La cronaca della Daunia, di questi anni e di questi giorni, fa riprendere dalla libreria della memoria (e da quella in legno o metallo) “La mafia innominabile”, (ed. La Meridiana, 2011), libro scritto da Domenico Seccia, il magistrato che dagli inizi degli anni 2000 ha combattuto ciò che ormai è catalogata come “mafia garganica” e non più “faida”. Sono in tanti, oggi (compreso il sottoscritto che lo ha presentato il 18 novembre a San Severo, con l’autore e tanti giovani), a chiedersi “perché” il libro (e le “carte” che lo hanno generato) fosse finito tra gli scaffali mentre doveva essere tenuto sempre sopra una scrivania. Forse, qualche lettore istituzionale più attento e operativo avrebbe potuto salvare altre vite innocenti. Domenico “Mimì” Seccia, già Sostituto alla DDA di Bari e capo della Procura della Repubblica di Lucera (che non esiste più, essendo stata accorpata a Foggia), attualmente è alla Procura di Fermo. “La mafia innominabile” è, di fatto, il primo libro sulla mafia garganica, per decenni sottovalutata e ricondotta a faida tra famiglie di pastori, definita “mafia” grazie alla Suprema Corte che l’8 ottobre 2011, ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Bari, con tutto ciò che ne è derivato anche da un punto di vista procedurale e processuale. “Errore di valutazione giudiziaria – si legge nel libro – che ha permesso al fenomeno di radicarsi, crescere, creare e implementare la sua economia di illegalità. Quella del Gargano è una mafia, oggi, come quella siciliana, campana, calabrese. Una ricostruzione storica e giudiziaria che non tralascia le storie delle vittime e dei mandanti e soprattutto racconta il cambiamento possibile cominciato grazie a chi dall’interno si è opposto”. La genesi che ha portato Domenico Seccia a scrivere un libro che andasse al di là delle sentenze (“Che la gente non legge ed a volte nemmeno i PM” – ebbe a dire, il magistrato Raffaele Cantone che processò i “Casalesi”), così è stata enunciata da Seccia, ai tanti studenti attenti e speranzosi (per un futuro migliore) accorsi quel giorno alla sua presentazione: “Questo libro nasce per diverse motivazioni ed ha portato via del tempo. Il lavoro è impegnativo e la redazione del testo è avvenuta durante i pochi momenti liberi, come i giorni festivi e spesso la notte. È nato per illustrare un fenomeno che è sempre stato definito, anche dai Media, faida, cioè la possibilità – continuò Seccia – per un privato, di ottenere soddisfazione per la lesione di un proprio diritto, ricorrendo all’uso della forza. Con questo termine, si minimizza un fenomeno che, in realtà, porta ad un isolamento del fatto”. Tra le figure chiave che hanno contribuito ad accendere in Seccia (già autore di articoli su argomenti giuridici), la vena di scrittore c’è stata sicuramente una sua collega: “L’input va a Rosanna Depalo, collega straordinaria, che mi ha sempre invogliato a scrivere ciò che emergeva sul Gargano e le sue storie che venivano fuori”. Dopo “La mafia innominabile”, Seccia ha pubblicato il secondo libro sul tema: “La mafia sociale”, che racconta le sue economie: “Un fenomeno a cui è stato permesso di radicarsi, crescere, creare e implementare la sua economia di illegalità, volta alle estorsioni e al narcotraffico”. Già sette anni fa, giusto per dare uno start up, così parlò Domenico Seccia.
Beniamino PASCALE

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