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L’epilessia, il giorno dopo: “La solitudine, aumenta il peso” – ne parla l’arteterapista, Francesca d’Errico.
Ogni anno, il secondo lunedì di febbraio, si celebra la giornata mondiale dell’epilessia, malattia neurologica che solo in Italia colpisce più di 500mila persone.
Come tutte le giornate internazionali, è un momento per aprire dibattiti, organizzare campagne di sensibilizzazione e per parlare di ricerca e scardinare l’atteggiamento di rassegnazione e non accettazione con cui spesso convive chi è affetto da questa patologia.
Vivere con l’epilessia significa vivere con una malattia cronica che impatta sulla vita quotidiana, tanto per gli aspetti sanitari, quanto per i rapporti con le persone, la scuola, il mondo del lavoro. E non solo in un giorno, quello dedicato, ma tutti i giorni: l’obiettivo da raggiungere è quello che non ci sia piú bisogno di organizzare “la giornata” perché come societá avremmo finalmente compreso che, convivere con una malattia o una condizione (fisica o mentale), non ci rende persone meno meritevoli di rispetto, di cure appropriate e dei diritti fondamentali.
Oggi, purtroppo, quando si parla di epilessia, si cade in luoghi comuni e falsi miti.
É talmente radicata la poca conoscenza della malattia nel concetto popolare, che si finisce con averne un’idea non solo erronea, ma addirittura che genera spavento, rigetto e paura.
Ne abbiamo parlato con una giovane arteterapeura di origini pugliesi, la 38enne Francesca d’Errico.
Nata a San Severo, Francesca ha sempre saputo che avrebbe lavorato con l’arte e con le persone. Arriva a Barcellona 15 anni fa per frequentare la Scuola d’arte Massana, dopo la laurea in Lettere e Filosofia, conseguita nel 2008 all’ Università “La Sapienza” di Roma. Nella capitale catalana inizia a studiare arteterapia, frequentando per due anni, un master. “Attraverso questo studio ho scoperto il grande valore aggiunto dell’arte e delle sue potenzialità: il piú grande strumento che abbiamo é la creatività. Non ce ne rendiamo conto, ma per risolvere i problemi dobbiamo essere creativi, sempre” – le riflessioni di Francesca il cui lavoro consiste nell’accompagnare adolescenti e giovani in una parte del percorso della loro vita attraverso proposte artistiche e creative.
Nel 2013 inizia la sua collaborazione con
l’associazione spagnola, dedicata all’infanzia e all’epilessia, con sede a Barcellona, “Mar de Somnis“, mare dei sogni, creata dallo statunitense Lane Auten, seguendo il modello della “Epilepsy Foundation Northern California” e con Elisenda Polinya, direttrice della stessa.
“Mi occupo di epilessia da molto tempo: ho iniziato dieci anni fa e non ho più smesso”- racconta Francesca- evidenziando che per le malattie croniche, per il momento, non ci sono cure, ma quasi sempre ci sono soluzioni per vivere meglio, tra cui l’arteterapia-.
Piccolo male o grande male, bel male, male scellerato, morbo, mal demoniacus, sono solo alcuni dei sinonimi che l’epilessia ha ricevuto nel tempo, come se solo nominarla potesse causare una sorta di maledizione. Questo ha dato luogo a pratiche e a dinamiche sociali che, oltre ad avere escluso o sovraesposto le persone con epilessia, ne hanno fatto delle vere e proprie vittime di “torture miracolose” (come per esempio applicare carbone ardente sotto la pianta dei piedi) con la convinzione
che le stesse potessero liberare il corpo dalla maledizione.
“L’ impatto emotivo e sociale- spiega l’arteterapeuta- dopo una diagnosi di epilessia, appare come un macigno sulle spalle di tutte quelle persone che per la prima volta devono farci i conti. Ho accompagnato diverse persone e famiglie durante gli ultimi dieci anni e posso dire con sicurezza che questo è uno dei momenti piú difficili da affrontare“.
La parola epilessia- continua Francesca- apre un tunnel oscuro di dubbi, incertezze e paure che molto spesso non trovano né spazio per essere risolte e né sensibilitá per essere accompagnate, negli ospedali, nelle scuole o nei luoghi di lavoro.
A volte nemmeno le proprie famiglie rappresentano uno spazio sicuro per poter accettare, comprendere e adattarsi.
Viviamo un capitolo della storia in cui sembra che qualsiasi tipo di conoscenza sia a un passo da noi, in cui tutto puó essere ‘googlato’ dove ogni persona puó cercare risposte alle sue domande.
Quando si tratta della salute però, l’elemento da considerare, fondamentale è il fattore umano.
Le malattie ci mettono di fronte alla parte piú vulnerabile di noi stessi, all’impermanenza della vita e al mistero della morte.
E l’unica risposta possibile al dolore umano è custodita dentro l’essere umano stesso e nella sua capacità di empatia. Per questo è importante che si parli di epilessia, e non solo in termini medici o generici, ma di storie di vita vissuta, di casi specifici, perché spesso pensiamo di essere gli unici a sperimentare la situazione che stiamo vivendo. E la solitudine che aumenta il peso.
“Raccontate le vostre storie, cercate gruppi di supporto e se non esistono nel posto dove vivete, createne uno.
Usate le reti sociali per conoscere altre persone, dietro le storie di vita c’è sempre un regalo che aiuta la comprensione e addolcisce l’anima. Non vi isolate, ma soprattutto non isolate i bambini per paura o peggio ancora per vergogna.
Una vita sociale ricca e attiva è fondamentale per la loro salute mentale e per non perdere la fiducia in se stessi e nella vita. Fate domande, siate curiosi, siate insistenti con i vostri medici quando qualcosa non vi è chiaro, loro anche imparano da voi. Siate anche impazienti se è necessario.
L’epilessia è una sfida complicata e continua, soprattutto quando è farmacoresistente e la società non è sempre preparata per capire e integrare.
Date alla rabbia la possibilità di venire fuori e trasformarsi nel motore che vi spinge ad andare avanti, a imparare a vivere in un altro modo: siate portavoci della diversitá e custodi della vostra salute.
Continuate a vivere la vostra vita, cercate il modo.
E soprattutto, continuare a parlare dell’epilessia.
Anche il giorno dopo“- il messaggio di Francesca d’Errico per contrastare lo stigma che ancora la avvolge.