Comunicati

L’UTOPIA AL POTERE

di FRANCESCO GIANNUBILO

Non sembra esservi dubbio che l’idea stessa della socialdemocrazia, nella sua odierna e più concreta espressione di sinistroide autorità governante, in conseguenza di recenti consultazioni elettorali, sia entrata irrimediabilmente in crisi in quasi tutti i paesi occidentali, con l’affermarsi, spesso vertiginoso, di formazioni politiche/antipolitiche richiamantesi a canoni perlopiù sommariamente liquidati come di destra estrema, antisistemici, od anche di individualismo anarchico. Cosicché, per fattori esogeni ed endogeni, la stessa rappresentanza politica dello “Stato di Democrazia”, per di più “Sociale” dal 1946, è divenuta di fatto l’erede del monarca assoluto, contro il quale era nata per limitarne il potere e del quale, invece, ha finito per adottare vizi e prerogative, assumendo, nel nostro Paese più che in ogni altro in Europa, le forme teratologiche del “dispotismo democratico”. Fattori esogeni, dunque, da collegare a dissennate e suicide politiche immigratorie non meno che a semifallimentari politiche comunitarie, e fattori endogeni particolarmente critici: debolezza strutturale del nostro impianto democratico, nato tra equivoci e contraddizioni; paranoica espansione del sistema partitocratico, che ha divorato il sistema istituzionale dominandolo, assorbendolo entro le sue spire, infiltrando putridamente la società in tutti i suoi gangli più vitali e devastando l’amministrazione: un’architettura di complessiva, spesso di malaffare, difesa unguibus et rostris dalla classe dei “partitanti”; una fiscalità predatrice e soffocante in una cornice di assurda ed incoerente forma socialismo di Stato; un impianto costituzionale soltanto formalmente liberaldemocratico, che, invece, apriva le porte ad un modello sostanzialmente collettivistico, con tutti i suoi stimoli al parassitismo ed alla lotta tra fazioni -un pidocchiume ricchissimo ed affamato- per l’incetta di un bottino politico troppo appetibile: da qui il dilagare del male più grave di questo Paese e che lo ha affondato, vale a dire il peso morto del PARASSITISMO POLITICO E BUROCRATICO, collegato alla CORRUZIONE di tutti i settori della vita civile ed alla DISTRIBUZIONE DEI FAVORI PUBBLICI. La risultante di questo sistema costituzionale di tipo giacobino-assembleare è che la stessa Costituzione, le istituzioni e la classe politica sono precipitate in un vuoto di legittimità, una nave ormai destinata a schiantarsi sugli scogli. Ma questo sulla Costituzione è anche un discorso a parte, che meriterà attenzione proprio a ridosso delle celebrazioni pubbliche, come sempre di vuota retorica, per il suo settantesimo anniversario. In siffatto contesto da “galleria degli orrori”, dunque, la vita dell’uomo qualunque, un individuo schiacciato, è scesa, davanti allo scempio di questo monstrum governante, ad un valore assolutamente irrisorio nella quotazione dei valori generali; la viscida morale che permea di sé il regime in atto, trova la più tragica, passiva, disgustosa adesione tra uomini, istituzioni e apparati politici, legati gli uni agli altri coi fili invisibili della putrida palude malavitosa e del malaffare. Questo Stato, sorto dalle ceneri del fascismo e di una guerra perduta, che avrebbe dovuto assumere la difesa del valore della libertà come l’alfa e l’omega della sua elaborazione teoretica, si è incuneato, invece, in un tunnel senza uscita, stretto tra l’abuso della ragione e l’abuso del potere, con tutto il suo strascico di tragica, folle utopia. Avremmo dovuto combattere tutti per la legge come “in difesa delle mura” e invece abbiamo dovuto imparare a combattere per difenderci dalla legge grazie per l’appunto a questo monstrum nelle cui mani lo Stato è diventato padrone di tutto, onnipotente nel concedere, non nel negare, un enorme Stato-padrone di un Paese che FRANCESCO COSSIGA ebbe allora a definire come il maggior Paese “a socialismo reale” al di fuori dal mondo dichiaratamente comunista, in cui un bizzarro istinto criptocollettivistico rimane sempre in agguato. Uno Stato, inteso come incarnazione dei vizi e dei difetti nazionali, visto come perpetuamente “altro” e ostile, in cui la social-democrazia è rimasta conflittuale e, lungi dal realizzare la coesione sociale, l’ha distrutta. Uno Stato, accudito da aspiranti “becchini di regime”, precipitato nel limbo crepuscolare delle vecchie cose di pessimo gusto, diventato ora il “ridotto della Valtellina” di un provincialismo inintelligente che punta non a moralizzare gli italiani ma piuttosto a farli ridere di se stessi. Sul filo dell’omertosa coscienza dello sfacelo generale, si situa, dunque, anche quello di un regime, crepuscolo corrusco di una “giornata di sangue”, tramonto farsesco e insieme tragico di un mito.

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