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Quello che non so di me: la poesia femminile di Antonietta Gnerre. La poetessa, critico letterario, saggista e giornalista presenta il suo nuovo libro.

Torna in libreria la poetessa Antonietta Gnerre con “Quello che non so di me”, edito da Interno Poesia. Una raccolta che è come un poliedro, raccogliendo in sé le diverse sfaccettature dell’animus poetandi dell’autrice. Ha scritto Alessandro Zaccuri nella prefazione: “La poesia di Gnerre è tendenzialmente, ma non esclusivamente, poesia in prima persona, così da poter dare voce a una più vasta comunità di affetti che solo sulla pagina riesce a trovare piena espressione. Ed è poesia femminile, di una femminilità vissuta con orgoglio e senza compiacimenti, «pane della vita» e «pane della rinascita», come felicemente sintetizza il primo verso di una delle non rare ballate nelle quali ci si imbatte nella lettura di questo libro coerente e compatto”.
E proprio in virtù di questa compattezza, addentrarsi nelle pagine di “Quello che non so di me” è come entrare in uno dei boschi dell’amata Irpinia di Gnerre: < Vedi, l’Irpinia somiglia all’universo/ La misuro con le imposte delle case distanti,/ che abbiamo abitato,/ per esercitare un sopralluogo di pensieri>, scrive la poetessa in una delle liriche più intense. Ma quello naturalistico, fatto di luoghi, alberi e toponimi che spaziano lo sguardo fino alla Puglia e oltre, non è il solo sentiero percorribile. I versi a un certo punto si dipartono verso radure dove a trionfare è l’amore, anche nella sua forma sensuale (“Se ti bacio è perché fiorisce,/ da un ramo a un altro/ questo tempo di baciarti”) o la ricerca di un oltre che si nutre di spiritualità (“Vedi, insieme siamo stati/ un qualcosa che è accaduto/ siamo stati eterni”) o il dubbio attraverso cui si tenta di ricostruire un’identità (“Io non so più come sono./ Non riconosco la chiave/ per aprire la voce che ho riposto”).

In realtà Antonietta Gnerre conosce bene quello che non sa di sé. E se si dichiara <colpevole>, come nel titolo di una delle sezioni del volume, è perché proprio attraverso i sentieri che solcano il bosco della sua vita, nel quale ogni lettore potrà trovare echi e colori e suoni della propria, ella conduce il gioco poetico fino a quella riconciliazione con se stessa e con il mondo, che è frutto del perdono affiorante lungo la strada, come le briciole usate da Pollicino per non smarrire la direzione.

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