UN ‘ATTIMINO’ SANSEVERESE
GIANFRANCO, giovane sanseverese disoccupato, ultratrentenne, da tempo laureato in Scienze Politiche, ha incontrato su corso Garibaldi un suo vecchio insegnante e questi gli ha chiesto cosa avesse intenzione di fare nel prossimo futuro. “Non so, non ho ancora deciso, ci devo pensare un ‘attimino’”. Il vecchio insegnante lo scrutò a lungo e gli disse: “Ma come parli, GIANFRANCO, io non
ti ho mai insegnato a pronunciare la parola ‘attimino’.Come puoi ridurre ad un vezzeggiativo qualcosa che contiene già di per sé il proprio senso compiuto? ATTIMO sta ad indicare quello che è eterno, profondo ed ‘immutabile’ nella propria irripetibilità. È possibile che possa esistere “l´attimino”? Un ‘attimo’ indica già una porzione breve di tempo. Forse “un attimino” è stato usato per la prima volta nelle sale di attesa, per comunicare ai clienti o ai pazienti che non avrebbero dovuto aspettare ancora per tanto tempo, e poi l’abitudine si è diffusa. Insomma, è possibile che tu debba pronunciare questo orribile sgorbio semantico?”. GIANFRANCO salutò con imbarazzo il suo vecchio insegnante promettendogli di far tesoro di ciò che gli aveva appena detto. Incontrò degli amici e decisero di andare al bar per bere qualcosa. Fu lì che GIANFRANCO -rivolgendosi al barista – chiese ad alta voce:”Vorrei un cappuccino…un attimino caldo”. I professori VALERIA DELLA VALLE e GIUSEPPE PATOTA, dell’Università “La Sapienza” di Roma, sostengono che la lingua parlata ai nostri giorni è piena di “tossine grammaticali”, modi di dire o espressioni che sono entrate nel lessico comune, ma che fanno a pugni con la correttezza e la sensibilità linguistica. Per chi volesse approfondire questo argomento, segnaliamo loro ilmanuale “Piuttosto che”-Editori Sperling & Kupfer (vedi copertina a corredo) che comprende un breviario di ben 300 “cose da non dire ed errori da non fare”.
MICHELE MONACO