“VU I’ MENNËLË?” (VUOI LE MANDORLE?)

Ma allora i ‘vu sti mennëlë ? (le vuoi queste mandorle?) chiese per la seconda volta il compagno di banco al suo illustre coetaneo di nome ANTONIO CASIGLIO. Il piccolo CASIGLIO non rispose, poiché non conosceva affatto l’uso del dialetto e si rammaricò – tempo dopo – sia per aver esitato di fronte all’atto di generosità del compagno e sia di ignorare un mezzo di comunicazione così importante di cui diventò successivamente un appassionato cultore. Parto da questo significativo aneddoto – raccontato dallo stesso protagonista – per domandarci: “nell’era della globalizzazione, di Internet, c’è ancora spazio, in un quadro che avanza velocemente dal locale al globale, per il caro, vecchio dialetto?” Penso che, nonostante i colpi infertigli dalla globalizzazione, anche linguistica, la ricchezza lessicale ed espressiva del dialetto conferisca all’individuo una coscienza profonda della sua terra, in quanto non può pensare alla sua infanzia, alla sua adolescenza, se non con gli accenti della lingua dialettale che lo ha visto crescere e formarsi. In essa vi è un potente tessuto emotivo, affettivo, comunicativo. In questo senso hanno giovato le grandi esperienze linguistico-dialettali sia del teatro, sia di prosatori del Novecento, da DE FILIPPO a GADDA a PASOLINI sino al più recente CAMILLERI, e ha giovato la grande fioritura di poesie che si sono avvalse magistralmente dei dialetti come i poeti GUERRA, BUTTITTA, ZAVATTINI e ZANZOTTO. Il linguista TULLIO DE MAURO sosteneva, qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, che il dialetto non si configura come codice dei ceti popolari, sintomatico di uno svantaggio sociale, ma viceversa come una tastiera di arricchimento espressivo. Conoscerlo è dunque un vantaggio. TULLIO DE MAURO (docente ordinario di linguistica generale presso la Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università “La Sapienza” di Roma) affermava: “E’ una grave semplificazione e schematizzazione dedurre l’equazione “dialetto=classi popolari”, “italiano=classi egemoni”. Non tutto ciò che è dialettale è espressione delle classi “subalterne”, come qualche sedicente intellettuale, con la puzza sotto il naso, semplicisticamente sostiene”. Il DIZIONARIO del dialetto sanseverese, curato per anni dagli insegnanti ATTILIO LITTERA e CIRO PISTILLO, si è affermato come un caposaldo della storia del vernacolo sanseverese e si avvale della brillante prefazione del sanseverese PASQUALE CORSI, ordinario di Storia Medioevale all’Università di Bari. Concludiamo con i versi struggenti del grande poeta siciliano IGNAZIO BUTTITTA: “Un popolo mettetegli la catena, spogliatelo, tappategli la bocca, è ancora libero. Toglietegli il lavoro, il passaporto, la tavola dove mangia, il letto dove dorme, è ancora ricco. Un popolo diventa povero e servo quando gli rubano la lingua adottata dai padri: è perso per sempre! Un popolo diventa povero e servo quando le parole non partoriscono parole e si mangiano fra loro. Me ne accorgo ora, mentre accordo la chitarra del dialetto, che perde una corda al giorno”.
