Cultura

LA PATRIA GIALLA

Cecoslovacchia 1946. Il 26 maggio si tennero le prime elezioni del dopoguerra e il partito comunista, sotto la guida del suo segretario KLEMENT GOTTWALD, il quale in precedenza aveva dichiarato che i comunisti non avevano alcuna intenzione di instaurare un sistema analogo a quello sovietico, ottenne il 38% dei voti (poco più della percentuale all’incirca attribuita dai sondaggisti al PD nostrano!). Eppure, nonostante tra il 1945 e il 1948 si tentasse in quel Paese la via di un socialismo pluralista, fu una “logica implacabile” quella che obbligò i dirigenti comunisti cecoslovacchi a spingersi sempre più avanti sulla strada della creazione di un regime totalitario. STALIN non tollerava dissenzienti, ma neppure alleati: accettava soltanto dei servitori pronti e disposti a piegarsi alla sua intollerante volontà. Già, proprio come ora! Certo, non nelle forme omicidiarie di allora, pur tuttavia un monstrum, una autorità governante, quella del PD renziano, con la sua isteria totalitaria collettivistica strisciante per via democratica, una iperbole totalitaria a mala pena mimetizzata sotto il paracadute di riform(icchie) che si pretendono epocali, ma che di epocale hanno il solo scopo di consolidare sempre più e meglio il (bio)potere di un regime becchino, padreternistico e contraffattore. Cosicché in questo quadro anche il problema delle garanzie, della protezione dei diritti -paradigmatica, da ultimo, la così detta “buona scuola” con l’irrompere in essa della corruzione e della politica: altro che meritocrazia e managerialità (!) e delle libertà, sia individuali che collettive, diviene assolutamente secondario, anzi inessenziale. L’immagine, dunque, edulcorata ed untuosa di un “partito nuovo”, una densa melassa i cui ci sono tutti i virtuosismi della cultura di sinistra, il retaggio più duraturo della subcultura comunista, con la sua deriva giustizialista e la sua pretesa totalitaria, uno dei fenomeni più conturbanti della vita politica italiana al quale politici, magistrati e giornalisti si sono votati e si votano in una specie di union sacrèe, una clacque assassina dello Stato liberale protetto, il “liberalismo protetto”, che non nasce di certo da una preoccupazione di interessi particolari minacciati ma dalla fede nella libertà e nella sua superiore missione etica. Tuttavia, noi liberali non sogniamo restaurazioni intransigenti e parrucchine, ammettiamo largamente le esigenze di socialità dei nuovi tempi, ma, adesso più che mai, la necessità della protezione del liberalismo nasce dal gravissimo pericolo che questo monstrum renziano possa richiedere l’estinzione della libertà, non certo quella formale, bensì quella più sostanziale dell’allargamento della partecipazione democratica alla vita politica del Paese. E non saremmo liberali se, rimasti un pugno di non conformisti intorno all’edificio minacciato dell’area della libertà, in una parola dello Stato liberale, non lottassimo con ogni mezzo per difendere il diritto insopprimibile, di cui ogni singolo è investito, di lanciare il suo “NO” all’attuale Leviatano governante, fuori da ogni controllo popolare. Già, ma dove sono finiti i liberali, quelli più veri, non certo i codardi, i pusillanimi, gli opportunisti, sopravvissuti in aggregazioni politiche di vario potere e, magari, vogliosi di saltare sul carro del vincitore? E dov’è finita la borghesia liberale, anche quella delle fabbriche, degli uffici, delle botteghe, magari solo marginalmente liberale, che, in tempi non lontani, ha marciato contro le supertasse e lo strapotere della sinistra? No, direttore FELTRI, adesso la borghesia è morta (La borghesia non è morta, da “il Giornale”, anno XXIII, n. 267), è finita così come è finita l’Italia, una patria di classe, una patria gialla, gialla di paura, la patria borghese dei borghesi gialli di paura e…rossi di vergogna per aver permesso che accadesse il fatto più grave della nostra storia nazionale, la patria dei borghesi gialli di sacrestie demo-catto-comunistoidi, gialli di ira impotente, con tanto di verde tartaro. La patria di una democrazia che, al di là di retoriche celebrazioni, non ha gloria, ma non ha neppure sconfitte, che ha, semmai, soltanto una lugubre storia di parassitismo, corruttele e cronache giudiziarie. Eppure l’Italia ha avuto anche grandi momenti, ai tempi delle libertà repubblicane, dell’umanesimo rinascimentale e -perché no?- pure del rivoluzionarismo liberale: sovente fu all’avanguardia nell’Europa. Trascorsi quei tempi l’Italia è dunque finita, è diventata una “terra di morti”, con una sola massima: ubbidire ora a chi comanda!

                                                   FRANCESCO GIANNUBILO

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